Nòio volevàn savuàr l’indirìss…

by Marina Caccialanza


L’ultima di una lunga serie di strafalcioni che ho sentito in TV è stata “bànker”.

Cos’è? Presto detto, è il BUNKER, termine di origine germanica e come tale pronunciabile come si scrive, pronunciato invece “all’inglese” con la A aperta. Ma perché?

C’è un famoso chef, personaggio di tutto rispetto, che per fare la pubblicità di un sapone per lavastoviglie afferma che esso è il “plàs”, con la A aperta all’emiliana per giunta.

Cos’è? Presto detto, è il PLUS, termine di origine latina e dunque da pronunciarsi come è scritto. Ma perché?

Un noto attore e presentatore televisivo ha diretto un’intera stagione di giochi TV augurando ai concorrenti un’ottima PÉRFORMANCE, con l’accento sulla prima sillaba. Nessuno in tanti mesi ha trovato il modo di fargli sapere che l’accento si mette sulla O. Stavo per scrivergli io.

Ma perchéeeeee?

E lasciamo perdere quante volte ci appelliamo ai “midia” (inglese?) e intendiamo i MEDIA senza pensare che la parola è latina e quindi…o strapazziamo l’udito di chi ascolta senza pietà omettendo l’acca aspirata, pronunciando finali di parole che non si devono sentire, senza inflessione, scandendo le sillabe malamente o, peggio ancora, usando i termini a sproposito tanto fa figo.

Le lingue straniere sono entrate nel nostro linguaggio comune ed è giusto. Qualche volta si esagera un pochino ma ci sta. È la globalizzazione, baby e, lo so, è moderno parlare infiocchettando la frase di parole straniere di cui magari ignoriamo il significato esatto.

Però, almeno impariamo a pronunciarle correttamente o almeno imparino coloro che fanno comunicazione, coloro che parlano dal balcone immenso della televisione, coloro che per conto nostro riferiscono all’estero le nostre idee e portano l’Italia nel mondo.

No, se ne sentono di tutti i colori.

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Nòio volevàn savuàr l’indirìss…quel genio di Totò insieme a Peppino De Filippo, spalla d’eccezione, espresse con quelle poche parole tutto il disagio italico per le lingue straniere.

Erano gli anni cinquanta/sessanta, la popolazione italiana usciva lentamente dall’analfabetismo grazie al mitico maestro Manzi e la maggior parte delle persone si esprimeva in dialetto, figuriamoci se poteva conoscere altre lingue. Erano scusati e ne ricordiamo l’imbarazzo con tenerezza e affetto.

Il fatto è che non è cambiato molto nell’atteggiamento degli italiani e nella loro predisposizione per le lingue. Siamo proprio negati. Nel corso dei decenni si è cercato di migliorare la situazione e qualche passo avanti in effetti è stato fatto: oggi si studia l’inglese anche alle scuole elementari, i giovani partecipano agli scambi interculturali dei programmi scolastici, molti di loro vanno all’estero e se la cavano egregiamente…se non parlicchi l’inglese nessuno ti assume nemmeno al supermercato.

Eppure, rimane quel passo da fare che non viene fatto; nella testa della gente proprio non si apre quello spiraglio da cui la lingua straniera possa entrare e radicarsi.

Ho studiato lingue; liceo linguistico, poi scuola interpreti, università…qualche breve soggiorno a Londra. Ho lavorato molto nei padiglioni fieristici di Milano negli anni in cui gli espositori avevano bisogno di un’interprete perché nessuno di loro masticava neppure una parola di inglese, il francese era considerato lingua morta e il tedesco risentiva ancora dell’antipatia generata dall’ultima guerra mondiale; la Spagna era buona solo per le vacanze, la Cina era lontana e la Russia oltre cortina.

Al liceo avevo insegnanti di lingua madre e insistevano molto sulla corretta pronuncia.

En, en…nel naso, nel naso” urlava Madame per abituarci alla pronuncia nasale del francese. “Polìceman, cigarètte, perfòrmance… l’accento è importante e deve cadere sulla sillaba giusta” implorava Mistress con disgusto ai nostri balbettii. Una fatica! Ma abbiamo imparato; oggi sebbene arrugginita dalla scarsa pratica della lingua, difficilmente sbaglio una pronuncia e divento una belva quando sento storpiare le parole.

Allora mi domando perché persone istruite, impegnate, orientate al futuro con intelligenza non abbiano quell’ambizione (piccola, in fondo) di imparare a usare i termini correttamente.

Quando si domanda a molti giovani cosa vogliono diventare, rispondono “l’influencer”.

Va bene, ma per “influire” su qualcosa o su qualcuno bisogna prima “sapere”.