Un giorno di ordinaria pandemia

by Marina Caccialanza

Data stellare 17 marzo 2020, venticinquesimo giorno di pandemia.

Potrebbe essere davvero l’inizio di una pagina del diario del comandante Kirk di Star Trek.

Eppure, questa è Milano, Lombardia, Italia, in un giorno di ordinaria pandemia.

Dal quel 22 febbraio è trascorso quasi un mese: i comuni di Codogno e Casalpusterlengo sono zona rossa, nessuno può entrare e uscire.

Da quel momento, anche la Lombardia e Milano sono sotto i riflettori. È ancora difficile capire l’entità del rischio ma il risultato lo conosciamo tutti: #iorestoacasa, in tutta Italia.

Oggi, 17 marzo 2020, la nostra vita è completamente stravolta.

Mi alzo a fatica e faccio colazione svogliatamente, sbrigo le solite faccende domestiche, forse con più attenzione di quanto sia abitudine; una lettura veloce delle ultime notizie, uno sguardo ai social e mi accingo a lavorare perché fortunatamente non tutto è fermo, mancano gli eventi, gli incontri coi colleghi o le conferenze stampa che scandivano le mie giornate ma il mio lavoro è scrivere. Cosa mi manca? Basta un computer. Basta il telefono.

Eppure mi sento come se mi avessero tagliato le gambe, sono inchiodata alla scrivania e le dita corrono sulla tastiera come se cercassero di scappare, chissà dove.

Dopo venticinque giorni di crisi sanitaria generale e almeno dieci giorni che non esco di casa guardo dalla finestra e penso: “ecco, adesso c’è il sole e non posso uscire, appena tutto finirà di sicuro comincerà a piovere”.

Decido che devo andare a fare la spesa, l’ordinazione online fatta una settimana fa sarà consegnata solo il 28 marzo, se tutto va bene, il sistema è al collasso, lo capisco.

E poi, c’è mia madre. Ha novant’anni ed è chiusa in casa, da sola, da quasi un mese. Figli e nipoti le portano il necessario ma non si fermano a farle compagnia, ci dicono che è a rischio contagio anche se gode di ottima salute, data l’età, e lei ha accettato la situazione con buon senso. Ma io lo so che è triste.

Bene, facciamoci coraggio e andiamo, che sarà mai?

Mentre sto per uscire dalla porta di casa, mio marito mi rincorre con in mano un paio di guanti da giardinaggio, sono verdi a fiori: “Almeno metti questi quando tocchi il carrello del supermercato”.

Salgo in macchina e vado.

Sembra di essere in quel film con Will Smith, Io sono leggenda, quando il dottor Neville vaga per le vie di una New York deserta e silenziosa. Non ho nemmeno il cane. Di sicuro non ho un fucile.

Vedo qualche macchina passare, aldilà della rotonda c’è una pattuglia della polizia che ha fermato un automobilista. Ci vuole l’autocertificazione: ce l’ho, ma non mi fermano.

Arrivo al centro commerciale che dista un paio di chilometri senza nemmeno fermarmi agli incroci, le strade sono vuote, un tizio cammina lentamente lungo il marciapiedi con un cane al guinzaglio,  un furgone si ferma e scende un ragazzo “mascherato” con un pacchetto tra le mani guantate.

Quello che colpisce di più è il silenzio; è un silenzio assordante.

E a quel punto la solitudine ti assale. Ma dai, non esagerare dico a me stessa, guida e pensa positivo.

Parcheggio semivuoto, infilo i miei guanti verdi a fiori e prendo il carrello: sono pronta.

Oltre la scala mobile lo scenario è vagamente bizzarro: chi con mascherine sul volto, chi con la sciarpa davanti alla bocca, c’è un tale col passamontagna, fa un po’ ridere, qualcuno come me alza il mento e tira dritto.

I negozi sono chiusi naturalmente e davanti all’ingresso del supermercato si snoda la fila, lungo tutto il corridoio, saranno una trentina di persone allineate e distanziate. Attendono pazientemente di poter entrare all’invito delle guardie.

Capo chino, sguardo sfuggente, ci sbirciamo di sottecchi come a dire “se ti avvicini, urlo”. Oddio, comincia a salirmi l’ansia.

Finalmente entro e mi aggiro tra le corsie e a quel punto mi prende come una frenesia, non di comprare tutto, ma di fare in fretta, voglio andarmene da lì più presto che posso. Faccio lo slalom tra le persone che mi vedono arrivare e si scansano, giro al largo per non incrociare nessuno troppo da vicino. Prego passi lei, ma no passi lei. Butto nel carrello quello che serve e non bado molto al prezzo, alla marca, mi lascio tentare da un pacco di wafer al cioccolato.

Metti le borse nel baule, togli i guanti, sali in macchina e prima di accendere il motore prendi dalla borsa quelle salviettine umidificate, pulisciti le mani…male non fa.

La prima parte della mia sortita è fatta. Adesso, mi aspetta la prova più dolorosa: “Ciao mamma, tutto bene? Ecco le cose chi mi hai chiesto”.

Ci guardiamo, io resto in anticamera sulla soglia, lei non esce dalla cucina. Non ci abbracciamo, ci guardiamo e cerchiamo di sorridere mentre ci scambiamo poche parole ma le lacrime salgono agli occhi: “Non fare così mamma, altrimenti piango anch’io”.

Ma porcaccia la miseria! Va bene, passerà anche questa.

Arrivo a casa e sono stremata, nemmeno avessi corso la maratona. Mi sento stupida e debole e sono anche arrabbiata. Mollo le borse al marito, le scarpe finiscono sul balcone, i vestiti in lavatrice, io mi getto sul sapone e finalmente mi rilasso. Quante storie, direte!

La giornata non è ancora finita e bisogna farsi forza; una telefonata con un’amica mi conferma che non sono la sola a provare queste sensazioni di disagio e tristezza e fatica interiore e mi domando “per quanto ancora?”.

Dai, Marina, lavora che è meglio, e non pensare ad altro; una videochiamata coi figli lontani tira su il morale, i tuoi cari stanno tutti bene, è questo che conta.

#andràtuttobene.