Carne e stelle tra qualità e innovazione

by Marina Caccialanza

Da iMeat giornale di luglio/agosto l'intervista a Andrea Ribaldone chef patron di Osteria Arborina e partner di Identità Golose Milano Hub. 
Si parla di carne, di tecnica, di made in Italy e molto altro.

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“Sono piemontese, e la carne ha un ruolo speciale nella mia alimentazione e nel menu del mio ristorante. Anche se sono cresciuto a Milano, dove ho vissuto molti anni, sono figlio di piemontesi e in Piemonte sono le mie radici”. Esordisce così Andrea Ribaldone alla mia prima domanda.
Quanto conta la carne per te e nel menu del tuo ristorante?
Per noi piemontesi la carne ci deve sempre essere in casa e la Fassona è il piatto ideale da portare in tavola. La carne entra nel mio menu, all’Arborina, sempre, e poiché il mio lavoro mi porta a dividermi tra Piemonte, Lombardia e Puglia, cerco di adattare la cucina al territorio.
Significa che impieghi razze del territorio, e come le selezioni?
Tendo a utilizzare le razze locali per principio. In Puglia, per esempio, ho deciso di valorizzare l’uso della Podolica che non sarebbe una razza da carne ma da latte, però è di ottima qualità. Poiché, però, ritengo che l’idea di km 0 abbia poco valore se il prodotto non è qualitativamente valido, abbiamo fatto un lavoro di ricerca e abbiamo scelto di dare agli allevatori locali fiducia e opportunità supportandoli nel portare il loro prodotto al livello migliore, adatto a una cucina di alto livello. Più che km 0 in questo caso mi piace definirlo km buono. A Borgo Egnazio, un resort molto grande dove la clientela è internazionale e si fanno molti numeri per cui occorre avere un approvvigionamento da tutto il mondo, abbiamo avviato un percorso di qualità coi produttori locali: solo bestie femmine, allevate al pascolo nelle Murgie, tradizionalmente destinate alla riproduzione. La loro carne non era considerata adatta al consumo ma in realtà è ottima e saporita. Per ovviare al problema della durezza abbiamo acquistato un maturatore e la carne così trattata e maturata per 40/60 giorni diventa prelibata, ottima da essere inserita nel nostro menu.
Per l’Arborina, in Piemonte, come ti regoli?
Di solito in Piemonte si usano carni più fresche perché si tratta di razze completamente differenti. In Piemonte la carne si consuma di solito dopo 4 o 5 giorni. Ma anche qui abbiamo fatto un percorso di qualità. Il ruolo di un grande ristorante è quello di lavorare su prodotti del posto e valorizzare il mood che ne deriva e far crescere i produttori locali per noi è dare un valore al lavoro di tutti, il nostro e il loro. In Piemonte il mio fornitore di fiducia è la macelleria Oberto, di lunga tradizione, con cui stiamo cercando di fare lo stesso percorso. La tradizione piemontese vuole la carne macellata e consumata mentre la frollatura a mio parere offre molto al macellaio e al cuoco. Il dry age è molto interessante per un macellaio ma non deve essere affrontato come una moda, è una tecnica complessa da apprendere con cognizione e, nella selezione, la collaborazione tra macellaio e cuoco è molto importante e assolutamente indispensabile, crescita continua per entrambi. Del resto il ristorante è la prima vetrina per la macelleria e per chi vive nella zona perché puoi comprare ovunque ma lavorare a stretto contatto con chi ti sta intorno è motivo di crescita.

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Cosa pensi della preparazione, in generale, dei cuochi italiani a proposito di carne. Sono in grado di gestire al meglio la materia prima?
Spesso succede che i giovani guardano più le tecniche di cucina che non quelle per disossare la carne – o sfilettare il pesce – anche perché nelle scuole non ricevono una formazione adeguata in questo senso. Dobbiamo però tenere presente che non è facile per una scuola alberghiera, con tanti problemi di gestione e pochi fondi a disposizione, dare queste nozioni. Disossare una bestia non è un’azione banale e inoltre è affare molto costoso. Inoltre, penso che il valore di una scuola sia soprattutto quello di dare una cultura di base, non solo le tecniche. Sarebbe peggio avere un cuoco che sa disossare alla perfezione un quarto di bue ma è ignorante e non è in grado di fare un discorso corretto. I giovani devono imparare la storia, l’inglese, avere cultura. Tutto il resto si impara poi, con l’esperienza. La scuola è solo l’inizio del percorso. Il vero problema sono i ristoranti che spesso non dedicano abbastanza impegno nella formazione dei giovani cuochi. Io consiglio sempre di fare un periodo di apprendistato in locali seri e di qualità: spesso sento consigliare di fare la gavetta sulle navi, per esempio, ma lì è tutto stivato già preparato in precedenza. Serve uno chef serio e motivato che guidi il giovane nel suo percorso di approfondimento delle basi. Quando sei in ballo, devi imparare per forza ma è un percorso lungo, ci vogliono almeno 10 anni per arrivare a un buon livello di preparazione ed esperienza. Mai avere fretta di bruciare le tappe.
Dunque è importante rispettare le diverse professionalità?
Il cuoco non potrà mai essere bravo come un macellaio o un pescatore nel lavorare la materia prima ma deve sapere un po’ di tutto. Possiede altre professionalità che in sinergia con quelle del macellaio portano alla presentazione di un piatto a regola d’arte.  
Naturalmente ci vuole la curiosità e la voglia di crescere e imparare, solo così la sinergia tra gli attori porterà a buoni risultati.
Come nasce una ricetta?
Io non ho un libro di ricette perché una volta fatta, la ricetta resta lì e non offre più nulla di nuovo. Meglio dimenticare le cose già fatte e puntare su nuove idee. Quando voglio creare un piatto a base di carne, sfoglio un libro con le immagini dei diversi tagli, scelgo e decido cosa voglio fare. A quel punto è tutto un divenire: studio il piatto, vado dal mio fornitore e cerco quello che mi serve. Cerco di rispettare la stagionalità ma, per esempio, amo molto le interiora, materia prima spesso sottovalutata, dalle animelle al cuore di manzo. Credo che il compito di un ristorante sia anche far provare ciò che non si consuma di solito, invitare il cliente a sperimentare. Questo non significa che non utilizzi tagli più convenzionali, il filetto per esempio. Col filetto di vitellone ho ideato una versione del vitello tonnato che servo adagiato sulla salsa tonnata, bruciato al cannello con olio affumicato.
Le tecniche di cottura sono importanti?
Certamente. La cottura sottovuoto a bassa temperatura è straordinariamente performante e offre grandi possibilità; ha dato una grande sferzata in cucina, soprattutto per la carne. Al di sotto di una certa temperatura il collagene e le proteine non si disperdono ma restano all’interno della carne; si può avere un taglio perfetto, compatto e morbido; la cbt offre tutto ciò. Ma, in fondo, se pensiamo a come cucinavano le nostre nonne, con la pentola per ore accanto al fornello della stufa, non abbiamo scoperto nulla. A livello chimico è il metodo migliore ma occorre farne un uso corretto e consapevole e terminare il piatto rifinendo la carne ripassandola in padella.
Carni italiane sempre o via libera a prodotti dall’estero?
Ci sono carni estere ottime. In Australia gli allevamenti sono straordinari, con pascoli infiniti che noi non abbiamo e controlli molto attenti, di altissimo livello, non solo in materia batteriologica e per quello che riguarda la macellazione; la carne viene classificata scrupolosamente: quando la compri sai esattamente da quale allevamento proviene, il grado di marezzatura, l’età della bestia, tutta una serie di parametri difficilmente riscontrabili su altre carni. Ci sono luoghi nel mondo dove gli allevamenti sono seguiti molto attentamente e le carni sono un cardine dell’economia. Da noi è più difficile, non abbiamo nemmeno lo spazio.


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Come valorizzare allora i prodotti italiani rispetto ad altri?
Si dovrebbero creare leggi più chiare rispetto ai prodotti dell’italian sounding, ma il problema è che quando vado all’estero e assaggio un prodotto italiano – facciamo l’esempio di un formaggio grana marchiato o di un prosciutto marchiato e mi rendo conto che non è della qualità che vorrei, non solo, mi accorgo che nei grandi ristoranti usano il Pata Negra capisco che succede perché il prodotto italiano non garantisce la stessa qualità costante. Dovremmo concentrarci di più sul nostro know how, sulla qualità e sul prezzo. È inutile pensare che un cliente che può spendere 3 euro al kg per un prodotto vada a cercare l’articolo d’importazione dall’Italia; se vogliamo essere aggressivi sul mercato base, è ovvio che non possiamo. Dobbiamo concentrarci sull’alta qualità e sulla clientela in crescita nel mondo come cinesi e americani, che capiscono, assaggiano qualunque cosa e quando arrivano al nostro prodotto devono vedere la differenza, che deve essere netta.
Anche sulle carni alzare il livello sarebbe la cosa migliore. Capisco che spesso ci si scontri col mercato ma è l’unico modo per noi che abbiamo una produzione limitata e penalizzata dalla scarsa disponibilità di terreno. 

Credit:
Le foto dei piatti sono di Davide Dutto
La foto del locale è di Gianluca Grassano