Cotoletta ieri e oggi, tra storia e innovazione

by Marina Caccialanza

Cotoletta alla milanese o Wiener schnitzel? È come disquisire se è nato prima l’uovo o la gallina. 

Eppure, “Lombos cum panitio” la definisce un menu dei canonici di Sant’Ambrogio del 1148, conservato nell’archivio della biblioteca della basilica milanese.

Il menu dei monaci pare non fosse poi così punitivo se nei giorni solenni prevedeva 3 portate: l’ultima consisteva in “pullos rostidos, lombolos cum panitio, et porcellos plenos”.

Ecco qua, svelato il mistero. Nel Medioevo, insomma, si faceva già la cotoletta impanata, anche se non posiamo certo negare che il dominio austro-ungarico non abbia influito sui costumi – anche alimentari – dei milanesi. Basti pensare alla michetta, degna erede del kipferl.

È ben nota, d’altronde, la passione del maresciallo Radetzky per la fettina di carne dorata, ma a pensarci bene, i nobili teutonici dovevano essere dei gran buongustai e soprattutto amavano la carne, tanto da tramandare legate al loro nome ricette importanti per la storia della cultura gastronomica: penso al barone von Bismarck e alla sua bistecca di manzo con l’uovo fritto.

Tornando alla cotoletta, è vero, esiste una versione viennese che però consiste principalmente in una fetta di carne di vitello sottile e impanata due volte prima di essere fritta. Ricorda quella che spesso viene definita “orecchio d’elefante”, inoltre può essere di bovino o di maiale, un po’ differente dalla milanese vera.

La cotoletta alla milanese deve avere l’osso. Comunque deve essere tagliata dalla parte del lombo di vitello. Non è un vezzo: è la parte che meglio fornisce la corretta proporzione tra carne grassa e magra. Deve essere alta un dito e appena appena battuta per abbassarne lo spessore senza perdere la consistenza. La carne si passa nell’uovo sbattuto e poi nel pangrattato, senza infarinarla. Secondo la tradizione, la cottura deve essere fatta in padella, nel burro crudo abbondante. Formatasi la crosta da un lato si gira delicatamente. Il sale si aggiunge alla fine perché altrimenti provocherebbe umidità e distacco della crosta. Un tempo era d’uso servirla con un ricciolo di carta intorno all’osso, qualche ristorante tipico ancora lo fa. Oggi è una guarnizione ma in origine era un espediente necessario per riparare le dita delle persone “distinte” che mangiavano la cotoletta impugnandola per l’osso ma non volevano ungersi le dita. 

Nel 2015, in seno al progetto realizzato in collaborazione tra APCI (Associazione Professionale Cuochi Italiani), ANDID (Associazione Nazionale Dietisti) e LifeGate denominato Cucina la Salute con Gusto venne studiata una formulazione innovativa della cotoletta alla milanese, così come per molte altre ricette della tradizione regionale italiana.

Lo scopo della rivisitazione era quello di realizzare una ricetta che pur mantenendo le caratteristiche organolettiche della versione originale presentasse un basso tenore di grassi, un minore apporto di colesterolo e offrisse un livello di sostenibilità più elevato.

Il risultato fu un piatto certamente gradevole dove la panatura, preceduta da infarinatura e immersione in uovo diluito con acqua, subisse una cottura in padella ma non in immersione, solo con una spennellata di olio in superficie in modo da tollerare una cottura lenta e delicata attraverso la quale fosse possibile creare la crosticina superficiale senza bruciarla. In questo caso naturalmente l’uso di una padella antiaderente è fondamentale. Anche la cottura al forno sarebbe indicata anche se il risultato non sarebbe molto diverso.
Infine, venne calcolato in quell’occasione il livello di sostenibilità del piatto basato sul calcolo del Carbon Footprint. Ebbene, dispiace dirlo ma le due versioni – tradizionale e rivisitata – non offrono aggiornamenti significativi: livello scarso per la ricetta originale, mezzo punto in più per quella rivisitata.

Allora? Considerando che la cotoletta alla milanese è un piatto in ogni caso a elevato apporto di energia e proteine, ad alto valore biologico e di colesterolo e che il suo impatto sull’ambiente resta pressoché invariato perché privarsene una volta tanto e soprattutto perché affannarsi a trovare soluzioni alternative alla ricetta originale se piace? Con moderazione, anche la gratificazione ha il suo valore.
Piuttosto, meglio adottare una tecnica di frittura corretta dove la temperatura non superi i 170/180°C, usare un olio stabile alle alte temperature come l’olio extravergine di oliva o quello di arachidi ricco in polinsaturi. E, soprattutto, carne di ottima qualità.

Ogni tanto non fa male…opinione personale, naturalmente.